I sacerdoti uccisi dai partigiani rossi


In copertina foto di Rolando Maria Rivi, seminarista assassinato dai partigiani il 13 aprile 1945, riconosciuto come martire in odium fidei il 28 marzo scorso.
Emilia Romagna: tra il 7 agosto 1941 e il 4 febbraio 1951 vengono uccisi 130 sacerdoti tra parroci, religiosi, cappellani militari oppure semplici curati. Si respira il rovente clima di terrore rosso che si visse almeno fino al 1948 nel famoso «Triangolo della morte», in città e regioni dove i comunisti avevano acquisito il controllo di prefetture e delle forze di polizia. E il discorso si allarga fatalmente, oltre ai poveri preti uccisi - che finalmente vengono restituiti alla memoria e, quindi, alla pietà -, per spostarsi su migliaia di altre vittime, anch'esse spesso cadute dopo la fine ufficiale del conflitto civile: quegli «sconosciuti 1945», se non di più, di cui si è occupato con grande successo di pubblico Giampaolo Pansa.
In alcuni casi, rari, i killer sono stati perseguiti; ma su moltissimi altri casi regna il buio, anche perché l'omertà, sembra incredibile, copre ancora le colpe a tanti decenni di distanza. E quando non si tratta di omertà, si è aggiunto un ulteriore oltraggio la diffusione sulle vittime di dicerie infamanti, quasi a giustificarne l'uccisione.
È Roberto Berretta, giornalista di Avvenire, ad affrontare, nel volume Storia dei preti uccisi dai partigiani, tale capitolo, tra i più oscuri, della storia nazionale nel periodo della Resistenza, contribuendo a minare l'immagine, fin da subito oleografica, della lotta di Liberazione, e soprattutto quella del partito comunista quale vera avanguardia della lotta medesima. Si tratta dell’ennesimo capitolo di una lotta che i partigiani non conducevano solo contro tedeschi e fascisti, ma anche contro i compatrioti antifascisti, se questi si opponevano alle loro pretese egemoniche e rivoluzionari, non aderendo alla loro ideologia. Porzus docet - potremmo dire - o, almeno, dovrebbe farci imparare che il Partito Comunista ebbe la «sua» politica da seguire e che i Gruppi di Azione Partigiana (Gap) e le Brigate «Garibaldi» agirono il più delle volte con assoluto disprezzo della pur ufficialmente accettata autorità del Cln. A rendere più infamante il crimine di guerra della strage dei preti è, in primis, il fatto che le uccisioni continuarono ben dopo la guerra, non permettendone alcuna giustificazione, sempre che fosse possibile, ricorrendo a quella «sospensione della moralità», propria della situazione di conflitto, per la quale l'uccisione del nemico comporta però anche la difesa dell'amico, dell'alleato,  ma che, alla fine delle ostilità, termina con esse. L’altro, fondamentale, elemento, che fa di questa strage non una componente della Guerra di Liberazione, ma un eccidio dai moventi prettamente ideologici, aventi le proprie radici nell’ateismo e anticlericalismo comunisti, è riscontrabile, semplicemente constatando che , tra le vittime, troviamo cappellani - due soli cappellani di milizia fascista, gli altri semplici assistenti spirituali dell'esercito -, dei «sospettati», dei «padroni» - preti ai quali si poteva imputare la colpa di essere possidenti -, dei «traditi» - preti che aiutavano i partigiani, alcuni addirittura cappellani di formazioni partigiane.
Da sinistra Padre Sigismondo Damiani, ex cappellano militare, eliminato dai da comunisti slavi a San Genesio di Macerata l'11 marzo 1944; don Aldemiro Corsi, parroco di Grassano (RE), assassinato nella sua canonica con la domestica Zefferina Corbelli da partigiani comunisti la notte del 21 settembre 1944; don Giuseppe Jemmi ucciso a Felina (RE) il 19 aprile 1945.
Scrive Berretta: «Erano colpevoli? E, se lo erano, meritavano di morire come sono stati uccisi, per giustizia sommaria, senza processo, talvolta "prelevati" e mai più ritrovati, tal altra seppelliti senza alcun funerale, fatti fuori anche vari mesi dopo la guerra sulla base di sospetti mai verificati, o anche di vendette personali fatte passare per motivi politici, diffamati in vita e ancor più in morte, perché più l'accusa era importante, più si sarebbe digerito il delitto? Non so, ciascuno giudichi. In me (che la guerra non ho vissuto) ha finito per prevalere la pietà per queste figure, tanto spesso innocenti o al massimo colpevoli quanto può esserlo qualunque uomo messo alle strette dalle circostanze della vita». (p. 14)
Da sinistra. Don Sperindio Bolognesi, parroco di Nismozza (RE), ucciso dai partigiani comunisti il 25 ottobre 1944;don Luigi Manfredi, parroco di Budrio (RE), fulminato nella sua canonica dai partigiani comunisti il 14 dicembre 1944 per aver deplorato gli eccessi a cui si abbandonavano nella zona i guerriglieri rossi; don Dante Mattioli, parroco di Coruzzo (RE), prelevato dai partigiani rossi la notte del''11 aprile 45 non fece più ritorno.
La dinamica delle uccisioni, ricostruita da parenti, amici e la loro volontà di ricordare le vittime, è sempre la medesima: il prete che viene chiamato fuori casa con l'inganno - in genere, chiedendo l'assistenza per un morente -; le intimidazioni e le minacce, nel più classico stile malavitoso, contro chi può aver visto o sentito troppo; il divieto addirittura di celebrare un funerale in forma pubblica; la diffamazione postuma della vittima - con netta preferenza per le «questioni di donne» -, per rendere - come dice Beretta stesso - più «digeribile» il delitto.L'ultimo prete ucciso per «motivi politici» è don Ugo Bardotti, pievano di Cevoli, nella diocesi di San Miniato in provincia di Pisa. Verso le ore 22 di domenica 4 febbraio 1951 tre persone bussano alla canonica e l'anziana zia del prete, che gli fa da perpetua, apre perché sente un cognome conosciuto in zona. Poi tre colpi di pistola: don Bardotti cade, ultima vittima di una malattia tremenda, l'odio, senza il quale, del resto, non possono sussistere le ideologie che hanno devastato il secolo appena trascorso.


Nessun commento:

Posta un commento

Il blogger, essendo responsabile penalmente di tutto ciò che viene pubblicato sul suo blog, modererà tutti i commenti, che non saranno pertanto visibili prima della sua approvazione: è richiesta la massima educazione e moderazione nei termini.